Si leggono cose stupende sul Risorgimento.
Sui libri di Pino Aprile (ex direttore di
Gente,
Oggi e
Fare vela, non proprio Benedetto Croce) sono illuminanti le parole dello storico Salvatore Lupo
http://www.linkiesta.it/it/article/2012 ... iolo/8708/
La ricerca storica seria viene violentata e relegata in una nicchia, negletta, poi si comprano migliaia di copie dei libri di Pansa e Aprile come fossero novelli oracoli perché offrono una prospettiva nuova, accattivante, che mischia politica contemporanea, ideologia e storia in confortante sintonia con la pancia del paese; perché in Italia si diffida sempre di tutto ma si ama alla follia la soluzione più comoda e pazienza se le fonti, i documenti e la credibilità degli autori non sono cristalline. Prima di Aprile e Pansa andrebbero letti una decina di testi di riferimento, anche di autori agli antipodi, ma almeno di livello accademico. Ma come dice giustamente Lupo, queste sono operazioni editoriali e non di ricerca storica, e come tali andrebbero considerate.
Finito il predicozzo, segnalo un testo fondamentale per capirne la portata storica all'interno delle condizioni economiche della penisola:
Risorgimento e capitalismo di Rosario Romeo (Laterza), che partendo dall'analisi salveminiana-gramsciana della rivoluzione mancata - concetto che sarà poi ripreso e distorto, ahinoi, dal nazionalismo fascista - fornisce una spiegazione funzionale del processo di unificazione risorgimentale. Cito solo questo, perché non mi va di scrivere mille pagine in attesa del derby.
In estrema sintesi.
Gramsci aveva sviluppato durante gli anni del carcere una tesi d’accusa contro il Partito d’Azione risorgimentale, che a suo dire avrebbe avuto la grave colpa di non aver coinvolto le masse contadine nel percorso rivoluzionario di unità nazionale. Secondo Gramsci i patrioti italiani avrebbero dovuto agire come i giacobini francesi, coinvolgendo i contadini nella lotta per l’unità e l’indipendenza facendo promesse sulla redistribuzione delle terre attraverso la rivoluzione agraria. La tesi di Gramsci ha poi avuto una significativa influenza tra gli studiosi di orientamento marxista.
Secondo Romeo però questa tesi si basava sul presupposto di una possibilità oggettiva di realizzare una rivoluzione e questa condizione di oggettività si prestava a diverse obiezioni. Che in Italia (specialmente nel Sud uscito da poco da regimi semifeudali di rapporti proprietari) ci fosse la reale possibilità di una rivoluzione agraria e l’effettiva esistenza di una vera alternativa al Risorgimento quale si è concretamente realizzato che non fosse meramente controfattuale e dal carattere più o meno progressivo, rispetto alla soluzione storicamente raggiunta nelle condizioni date.
Romeo sosteneva che la possibilità di una direzione alternativa della storia sarebbe stata fuori dalla realtà, perché nelle campagne era viva la presenza di un tenace sanfedismo che sarebbe stato quasi impossibile da convertire con argomenti mazziniani; e perché le masse italiane non avrebbero avuto alcuna capacità di confrontarsi con l’intervento militare di una Santa Alleanza europea. Si potrebbe obiettare che ogni rivoluzione si realizza per un corso non prevedibile della storia, e che quindi non sia possibile determinare o meno l'oggettività delle condizioni in cui possa o meno verificarsi, ma la promessa della redistribuzione delle terre era in quel momento un'utopia perché la situazione politica internazionale avrebbe negato la possibilità di realizzare una rivoluzione agricola nelle campagne dei diversi stati italiani pre unitari. Gli aspetti economici della mancata rivoluzione agricola avrebbero poi costituito gran parte della polemica marxista contro il Risorgimento.
L'economia italiana alla metà del XIX secolo era ancora largamente agricola; anche nelle regioni più avanzate del Nord gli investimenti nel settore agricolo erano notevolmente superiori a quelli fatti nell’industria e nel commercio.
Il vero impulso allo sviluppo economico dell'Italia è stato fornito proprio dallo Stato unitario, grazie agli investimenti per la realizzazione di grandi opere pubbliche, l'abbattimento doganale e la creazione di vie di comunicazione moderne, nonostante l’aumento del debito pubblico che il nuovo Regno si era caricato sulle spalle, e anche grazie al contributo di capitale straniero. La formazione del capitale necessario allo sviluppo della produzione industriale, che in Inghilterra e in Francia aveva già avuto luogo nel ‘500 e nel ‘600 con le
enclosures, il commercio coloniale, la politica mercantilistica di sostegno all’industria e al commercio, e che aveva permesso il grande sviluppo dell’industria manifatturiera, in Italia si realizza compiutamente solo nel corso del XIX secolo, in significativo ritardo nella prospettiva di realizzare una rivoluzione diversa nelle sue aspirazioni.
La funzione storica del processo risorgimentale è stata quindi quella di conquistare e garantire le condizioni politiche che rendessero possibile realizzare un'accumulazione del capitale piuttosto rapida permettendo così lo sviluppo industriale del Regno d'Italia. La rivoluzione auspicata da Gramsci avrebbe invece finito per compromettere una concreta possibilità di accumulazione; in particolare la popolazione agricola avrebbe dovuto essere superiore alla popolazione urbana e disporre di una produzione in eccesso per rendere disponibile la quota eccessiva della produzione per lo scambio; non si trattava soltanto di un problema di reddito, ma anche di produzione agricola abbondante. Quella della rivoluzione agricola era quindi solo una condizione necessaria, ma certamente non sufficiente per creare un contributo significativo allo sviluppo economico dell’Italia. Inoltre l’arretrato sviluppo delle città italiane che risaliva alla decadenza dei secoli seguiti al Medioevo, non consentiva alle classi dirigenti cittadine di condurre una completa rivoluzione antifeudale, necessariamente basata sull’intesa con le masse contadine, se non pagando per questa alleanza un prezzo storicamente troppo grave in termini di ritardo dello sviluppo capitalistico. Nelle condizioni storiche dell’Italia di allora la rivoluzione agraria avrebbe rappresentato uno sforzo in senso contrario alla tendenza che da oltre un secolo si era determinata in buona parte delle campagne del Nord e del Centro della penisola, avrebbe rappresentato uno sforzo diretto non già a potenziare e ad accelerare lo sviluppo storico reale, ma a deviarlo violentemente verso una direzione diversa e contraria dall'esito incerto. La conquista del potere da parte della borghesia risorgimentale coincide in larga misura, a causa del ritardato sviluppo storico italiano, con il processo di accumulazione primitiva a spese dei contadini, cioè con una fase di forte antagonismo fra città e campagna, fra borghesia e contadini.
La "mancata" rivoluzione agraria e la redistribuzione delle terre non avrebbero potuto costituire condizione sufficiente alla realizzazione della domanda interna in grado di sostenere lo sviluppo industriale, avrebbe invece potuto creare il reale pericolo di disperdere i pochi capitali accumulati, distruggendo anche la possibilità di avviare uno sviluppo industriale italiano.
Il moto unitario è stato un rivolgimento politico-economico e la formazione di un mercato nazionale è stato un fattore decisivo per il decollo del sistema capitalistico italiano. Anche rapace e spietato, in termini di costi: e a pagarli furono il Mezzogiorno e le campagne. Ma per lo sviluppo del paese non esisteva una ricetta alternativa. Almeno secondo Romeo e l'opinione prevalente della storiografia liberale. L'industrializzazione del paese era una scelta inevitabile: il capitalismo nel Regno d'Italia ha svolto per Romeo in campo socio-economico quella funzione positiva e rivoluzionaria che ha avuto sul piano etico-politico l'idea della libertà dei Moderni di Constant o l'etica del lavoro protestante secondo Weber. Il processo che avviò il Piemonte sulla strada di un'economia moderna portò un piccolo nucleo di classe dirigente a governare il paese dal centro, alleandosi a un gruppo ristretto di notabili nel Sud. Un equilibrio precario che sarà poi sconvolto dalla guerra. E dal fascismo, prodotto imprevisto della debolezza dello Stato liberale.