La colonna non infame a.k.a. una speranza per l'Informazione
- il_noumeno
- Moderatore
- Reactions:
- Messaggi: 66591
- Iscritto il: sab 9 giu 2012, 13:14
- Località: Off Topic
- Contatta:
- Stato: Non connesso
La colonna non infame a.k.a. una speranza per l'Informazione
LA REPUBBLICA (M. CROSETTI) - Una squadra magnifica e un campione fantastico, per il quale bisognerebbe chiedere la tutela dell'Unesco e una prolunga degli aggettivi, o forse una macchina per produrne di nuovi. La Roma e Totti, Totti e la Roma, stavolta sono loro i più belli del reame e il campionato lo grida, se prima lo sussurrava.
La Roma dei secondi tempi? Come no: in una quarantina di minuti ne segna tre all'Inter di Mazzarri, mica di Stramaccioni, e tutti a casa. Il primo, vero scontro diretto dei giallorossi, qui dove la Juventus rischiò di perdere, dice che l'inizio del campionato ha un padrone, non per caso e non di passaggio. La Roma vince sempre, è una macchina perfetta, azzanna se aggredita e soffoca se attesa, non offre punti di riferimento, non ha attaccanti di ruolo (Totti è assai più di questo, lui è una specie di universo), è diventata una diga a centrocampo e una muraglia cinese in difesa, ha una sorta di Bruno Conti nero (Gervinho, anche se il fallo del rigore era fuori area) e sembra divertirsi prima del pubblico, più del pubblico. I
l suo gioco è allegria serena, pura leggerezza insieme a una sostanza granitica. Da anni non si ammirava una cosa del genere: peccato che Juve-Roma arrivi tardissimo, nel giorno della Befana, sarebbe bello vedere subito le due grandi che si guardano negli occhi. Anche perché, se stasera la Juve non batte il Milan, gli occhi della Roma si allontanano parecchio. Assurdo parlare di fuga adesso, ma di poderoso scatto sì, come quando il grimpeur strattona gli altri sulla prima, vera salita, pervedere l'effetto che fa, equanto si allungano le lingue degli avversari. In compenso, dopo la sosta ci sarà Roma-Napoli, o forse Napoli-Roma per quella ingarbugliata faccenda delle manifestazioni nella Capitale e dell'ordine pubblico, con possibile inversione del campo. Roba gustosa. Sette vittorie consecutive sono già la trama del romanzo, non possono mentire. E I'Inter non è affatto una banda del buco, anzi.
Roma impressionante, Totti smisurato come raramente sapeva esserlo persino da giovane. Il suo triplo colpo nell'azione del gol di Florenzi (controllo, palleggio, tocco d'esterno) è il gesto più luminoso in una sera piena di cose da ricordare. A questo punto, chiediamo scusa in anticipo per l'avvio del tormentone: ma questo Totti non può non essere tra i probabili azzurri, non può non pensare ai mondiali, anche se siamo solo a ottobre. Non c'entra soltanto la Roma, perché lui è una miniera d'oro e appartiene a chi ama lo sport. Totti è di tutti.
La Roma dei secondi tempi? Come no: in una quarantina di minuti ne segna tre all'Inter di Mazzarri, mica di Stramaccioni, e tutti a casa. Il primo, vero scontro diretto dei giallorossi, qui dove la Juventus rischiò di perdere, dice che l'inizio del campionato ha un padrone, non per caso e non di passaggio. La Roma vince sempre, è una macchina perfetta, azzanna se aggredita e soffoca se attesa, non offre punti di riferimento, non ha attaccanti di ruolo (Totti è assai più di questo, lui è una specie di universo), è diventata una diga a centrocampo e una muraglia cinese in difesa, ha una sorta di Bruno Conti nero (Gervinho, anche se il fallo del rigore era fuori area) e sembra divertirsi prima del pubblico, più del pubblico. I
l suo gioco è allegria serena, pura leggerezza insieme a una sostanza granitica. Da anni non si ammirava una cosa del genere: peccato che Juve-Roma arrivi tardissimo, nel giorno della Befana, sarebbe bello vedere subito le due grandi che si guardano negli occhi. Anche perché, se stasera la Juve non batte il Milan, gli occhi della Roma si allontanano parecchio. Assurdo parlare di fuga adesso, ma di poderoso scatto sì, come quando il grimpeur strattona gli altri sulla prima, vera salita, pervedere l'effetto che fa, equanto si allungano le lingue degli avversari. In compenso, dopo la sosta ci sarà Roma-Napoli, o forse Napoli-Roma per quella ingarbugliata faccenda delle manifestazioni nella Capitale e dell'ordine pubblico, con possibile inversione del campo. Roba gustosa. Sette vittorie consecutive sono già la trama del romanzo, non possono mentire. E I'Inter non è affatto una banda del buco, anzi.
Roma impressionante, Totti smisurato come raramente sapeva esserlo persino da giovane. Il suo triplo colpo nell'azione del gol di Florenzi (controllo, palleggio, tocco d'esterno) è il gesto più luminoso in una sera piena di cose da ricordare. A questo punto, chiediamo scusa in anticipo per l'avvio del tormentone: ma questo Totti non può non essere tra i probabili azzurri, non può non pensare ai mondiali, anche se siamo solo a ottobre. Non c'entra soltanto la Roma, perché lui è una miniera d'oro e appartiene a chi ama lo sport. Totti è di tutti.
Santiago CFO
I hate Illinois Nazis
I hate Illinois Nazis
- PLUTO65
- Campione

- Reactions:
- Messaggi: 3742
- Iscritto il: sab 9 giu 2012, 14:12
- Località: Santa Lucia - Fonte Nuova (Roma)
- Contatta:
- Stato: Non connesso
Re: La colonna non infame a.k.a. una speranza per l'Informaz
il_noumeno ha scritto:LA REPUBBLICA (M. CROSETTI) - Una squadra magnifica e un campione fantastico, per il quale bisognerebbe chiedere la tutela dell'Unesco e una prolunga degli aggettivi, o forse una macchina per produrne di nuovi. La Roma e Totti, Totti e la Roma, stavolta sono loro i più belli del reame e il campionato lo grida, se prima lo sussurrava.
La Roma dei secondi tempi? Come no: in una quarantina di minuti ne segna tre all'Inter di Mazzarri, mica di Stramaccioni, e tutti a casa. Il primo, vero scontro diretto dei giallorossi, qui dove la Juventus rischiò di perdere, dice che l'inizio del campionato ha un padrone, non per caso e non di passaggio. La Roma vince sempre, è una macchina perfetta, azzanna se aggredita e soffoca se attesa, non offre punti di riferimento, non ha attaccanti di ruolo (Totti è assai più di questo, lui è una specie di universo), è diventata una diga a centrocampo e una muraglia cinese in difesa, ha una sorta di Bruno Conti nero (Gervinho, anche se il fallo del rigore era fuori area) e sembra divertirsi prima del pubblico, più del pubblico. I
l suo gioco è allegria serena, pura leggerezza insieme a una sostanza granitica. Da anni non si ammirava una cosa del genere: peccato che Juve-Roma arrivi tardissimo, nel giorno della Befana, sarebbe bello vedere subito le due grandi che si guardano negli occhi. Anche perché, se stasera la Juve non batte il Milan, gli occhi della Roma si allontanano parecchio. Assurdo parlare di fuga adesso, ma di poderoso scatto sì, come quando il grimpeur strattona gli altri sulla prima, vera salita, pervedere l'effetto che fa, equanto si allungano le lingue degli avversari. In compenso, dopo la sosta ci sarà Roma-Napoli, o forse Napoli-Roma per quella ingarbugliata faccenda delle manifestazioni nella Capitale e dell'ordine pubblico, con possibile inversione del campo. Roba gustosa. Sette vittorie consecutive sono già la trama del romanzo, non possono mentire. E I'Inter non è affatto una banda del buco, anzi.
Roma impressionante, Totti smisurato come raramente sapeva esserlo persino da giovane. Il suo triplo colpo nell'azione del gol di Florenzi (controllo, palleggio, tocco d'esterno) è il gesto più luminoso in una sera piena di cose da ricordare. A questo punto, chiediamo scusa in anticipo per l'avvio del tormentone: ma questo Totti non può non essere tra i probabili azzurri, non può non pensare ai mondiali, anche se siamo solo a ottobre. Non c'entra soltanto la Roma, perché lui è una miniera d'oro e appartiene a chi ama lo sport. Totti è di tutti.
Iscritto n.25 del 9 giugno 2012
So’ er giro a voto dell’anello cascato ar dito
della sposa che poi l’ha raccorto e me l’ha
tirato e io je ho detto: “mejo... sto bene da
solo...”
11 ATLETI ROMA CHIAMÒ!!!
So’ er giro a voto dell’anello cascato ar dito
della sposa che poi l’ha raccorto e me l’ha
tirato e io je ho detto: “mejo... sto bene da
solo...”
11 ATLETI ROMA CHIAMÒ!!!
- walteradrian
- Fuoriclasse

- Reactions:
- Messaggi: 5223
- Iscritto il: dom 10 giu 2012, 1:50
- Contatta:
- Stato: Non connesso
Re: La colonna non infame a.k.a. una speranza per l'Informaz
azzanna se aggredita e soffoca se attesa
"IL GIOCO DEL CALCIO SI GIOCA ANCHE CON I PIEDI"
Re: La colonna non infame a.k.a. una speranza per l'Informaz
Grande thread!
-
iacogol
- Capitano

- Reactions:
- Messaggi: 1353
- Iscritto il: mar 14 ago 2012, 17:57
- Contatta:
- Stato: Non connesso
Re: La colonna non infame a.k.a. una speranza per l'Informaz
Sicuramente dopo sto articolo lo licenzieranno!!?
- il_noumeno
- Moderatore
- Reactions:
- Messaggi: 66591
- Iscritto il: sab 9 giu 2012, 13:14
- Località: Off Topic
- Contatta:
- Stato: Non connesso
Re: La colonna non infame a.k.a. una speranza per l'Informaz
eh addirittura...iacogol ha scritto:Sicuramente dopo sto articolo lo licenzieranno!!?
Crosetti licenziato dal Gruppo L'Espresso lo voglio vedere...
Santiago CFO
I hate Illinois Nazis
I hate Illinois Nazis
- il_noumeno
- Moderatore
- Reactions:
- Messaggi: 66591
- Iscritto il: sab 9 giu 2012, 13:14
- Località: Off Topic
- Contatta:
- Stato: Non connesso
Re: La colonna non infame a.k.a. una speranza per l'Informaz
Dalai risponde a Padovan: “Totti è un fenomeno. Punto.”
Totti è un fuoriclasse. Anzi, per definire meglio il terreno su cui ci muoviamo quando scriviamo e parliamo del numero dieci della Roma, Francesco Totti è l’ultimo fuoriclasse rimasto al calcio italiano, un giocatore meraviglioso che rischia di restare senza eredi in un panorama tecnicamente devastato e vile come quello del nostro campionato, dei nostri campionati.
Totti è un giocatore irripetibile. Lo sanno bene i suoi colleghi, che per 5 volte lo hanno insignito del titolo di miglior calciatore italiano, lo sanno i compagni di squadra, gli allenatori e soprattutto lo sa chi ha ed ha avuto per tutti questi anni la fortuna di assistere a quel piccolo miracolo nato all’incrocio tra intuito, talento ed intelligenza calcistica. Perché è l’esperienza diretta di Totti e della sua incredibile capacità di stare dentro alla partita a fare la differenza, non c’è schermo né regista, pur dotato che possa rendere la sensazione di pienezza e di consapevole superiorità del calcio di Totti.
Una carriera intera spesa a cucire il gioco, lavare palloni ingiocabili e accelerare all’improvviso come se fosse normale. Totti sa fare tutto ed esegue con una semplicità disarmante ciò che per altri appartiene alla sfera dei misteri del calcio.
Totti è uno spettacolo a se, vale il prezzo del biglietto e a isolare l’immagine su di lui si guadagnerebbe molto in termini di conoscenza del gioco.
Certo, capita anche di vederlo regalare il suo genio a compagni di squadra meno fortunati, illuminarli e metterli sul proscenio per qualche minuto, sorridere a questi non protagonisti dopo averli accompagnati alla gloria. Ma poi Totti, per quanto la cosa non gli pesi particolarmente e la generosità sia una delle cifre del suo calcio, riprende il suo posto e occupa l’intera inquadratura di un kolossal che dura da 20 anni.
Giocare spalle alla porta in un campionato sporco e ruvido come quello italiano è logorante e pericoloso, subire la quantità industriale di falli che Totti subisce è possibile solo se si possiede una vocazione pura al martirio o se si è completamente inconsapevoli della presenza degli avversari.
Ecco, io di Totti penso questo, lo vedo muoversi con enorme naturalezza come se il campo fosse vuoto e percorso da tracce luminose che solo lui vede, che solo lui segue.
Ho passato, e qui mi permetto l’unica nota autobiografica, molti anni a fraintendere il talento di Totti, a viverlo da tifoso (non romanista) e a concentrarmi sui limiti caratteriali del giocatore, sul suo palmares e sulle contestazioni che in molti rivolgono allo stile e alla condotta dell’ultimo di numeri dieci.
Proprio perché le conosco a memoria e ho rischiato di farle mie, posso ora confutarle con fermezza.
Totti non ha abbandonato Roma e la Roma e questo è un segno di grande forza e non di debolezza. Se anche così facendo avesse rinunciato alla possibilità di vincere di più individualmente e arricchire la sala dei trofei di qualche altro grande club, pazienza. Francesco Totti è stato ed è un inno alla bellezza del calcio anche così, una vera force tranquille. Quello che gli manca in termini numerici è di certo presente nel tessuto romantico del tutto (e a questo nostro calcio orribilmente decaduto il romanticismo manca come l’aria).
Totti ha avuto ed ha un carattere forte, è consapevole del peso della sua presenza e se anche di tanto in tanto ha perso le staffe e si è comportato come un rissoso da pub glielo perdoneremo in nome di tutte le volte che ha subito pazientemente le provocazioni stupide dei suoi marcatori.
Conosco pochi campioni immacolati e tendo a non fidarmi di loro, in genere sono persone molto deludenti e grigie, apprezzo invece i fuoriclasse che sanno sbagliare e conoscono l’arte della redenzione (Maradona, Cantona e prima o poi anche Zidane).
Non saranno le reazioni maldestre e qualche pedata nervosa a oscurare l’immagine di mille colpi di genio.
Per ultima, fosse necessaria, la confutazione dell’accusa più gratuita, quella sulla presunta lentezza di Totti, sulla sua indolenza.
Francesco Totti corre come pochi altri, anche ora che ha 37 anni e che la sua carriera è inevitabilmente nella fase calante (parlando di prestazioni atletiche). Il fatto che sappia dove andare, che corra con eleganza e conosca bene le zone del campo in cui la sua corsa è necessaria non tragga in inganno.
Criticandolo si dice, nel pezzo di Padovan che ha scatenato le reazioni scomposte dei tottiani, che galleggia, laddove si vuole suggerire un concetto simile a quello della sopravvivenza, del minimo indispensabile, del compitino.
Basterebbe la visione, anche distratta, dei minuti di Roma – Napoli immediatamente successivi alla sua uscita. La Roma ha perso 20 metri di campo ed ha annaspato assai prima di riuscire a riorganizzare una reazione.
In quel vuoto di venti metri c’è tutto il campo che la corsa serena e la personalità di Totti riempiono in automatico.
Quindi, per non trasformare una dichiarazione d’amore in una noiosa (e goffa) dissertazione tattica, io dico lunga vita a Francesco Totti, prodigio del calcio e ultimo panda di un gioco che fu, quello in cui in Italia si dava il tempo ai giovani fenomeni di imparare a ruggire e non a scimmiottare i ronaldinhi e i cristianoronaldi altrui.
Francesco Totti è un fuoriclasse. Punto.
Dalai è un altro con cui magari posso essere in disaccordo talvolta (non in questo caso), ma che mi fa sempre piacere leggere.
Totti è un fuoriclasse. Anzi, per definire meglio il terreno su cui ci muoviamo quando scriviamo e parliamo del numero dieci della Roma, Francesco Totti è l’ultimo fuoriclasse rimasto al calcio italiano, un giocatore meraviglioso che rischia di restare senza eredi in un panorama tecnicamente devastato e vile come quello del nostro campionato, dei nostri campionati.
Totti è un giocatore irripetibile. Lo sanno bene i suoi colleghi, che per 5 volte lo hanno insignito del titolo di miglior calciatore italiano, lo sanno i compagni di squadra, gli allenatori e soprattutto lo sa chi ha ed ha avuto per tutti questi anni la fortuna di assistere a quel piccolo miracolo nato all’incrocio tra intuito, talento ed intelligenza calcistica. Perché è l’esperienza diretta di Totti e della sua incredibile capacità di stare dentro alla partita a fare la differenza, non c’è schermo né regista, pur dotato che possa rendere la sensazione di pienezza e di consapevole superiorità del calcio di Totti.
Una carriera intera spesa a cucire il gioco, lavare palloni ingiocabili e accelerare all’improvviso come se fosse normale. Totti sa fare tutto ed esegue con una semplicità disarmante ciò che per altri appartiene alla sfera dei misteri del calcio.
Totti è uno spettacolo a se, vale il prezzo del biglietto e a isolare l’immagine su di lui si guadagnerebbe molto in termini di conoscenza del gioco.
Certo, capita anche di vederlo regalare il suo genio a compagni di squadra meno fortunati, illuminarli e metterli sul proscenio per qualche minuto, sorridere a questi non protagonisti dopo averli accompagnati alla gloria. Ma poi Totti, per quanto la cosa non gli pesi particolarmente e la generosità sia una delle cifre del suo calcio, riprende il suo posto e occupa l’intera inquadratura di un kolossal che dura da 20 anni.
Giocare spalle alla porta in un campionato sporco e ruvido come quello italiano è logorante e pericoloso, subire la quantità industriale di falli che Totti subisce è possibile solo se si possiede una vocazione pura al martirio o se si è completamente inconsapevoli della presenza degli avversari.
Ecco, io di Totti penso questo, lo vedo muoversi con enorme naturalezza come se il campo fosse vuoto e percorso da tracce luminose che solo lui vede, che solo lui segue.
Ho passato, e qui mi permetto l’unica nota autobiografica, molti anni a fraintendere il talento di Totti, a viverlo da tifoso (non romanista) e a concentrarmi sui limiti caratteriali del giocatore, sul suo palmares e sulle contestazioni che in molti rivolgono allo stile e alla condotta dell’ultimo di numeri dieci.
Proprio perché le conosco a memoria e ho rischiato di farle mie, posso ora confutarle con fermezza.
Totti non ha abbandonato Roma e la Roma e questo è un segno di grande forza e non di debolezza. Se anche così facendo avesse rinunciato alla possibilità di vincere di più individualmente e arricchire la sala dei trofei di qualche altro grande club, pazienza. Francesco Totti è stato ed è un inno alla bellezza del calcio anche così, una vera force tranquille. Quello che gli manca in termini numerici è di certo presente nel tessuto romantico del tutto (e a questo nostro calcio orribilmente decaduto il romanticismo manca come l’aria).
Totti ha avuto ed ha un carattere forte, è consapevole del peso della sua presenza e se anche di tanto in tanto ha perso le staffe e si è comportato come un rissoso da pub glielo perdoneremo in nome di tutte le volte che ha subito pazientemente le provocazioni stupide dei suoi marcatori.
Conosco pochi campioni immacolati e tendo a non fidarmi di loro, in genere sono persone molto deludenti e grigie, apprezzo invece i fuoriclasse che sanno sbagliare e conoscono l’arte della redenzione (Maradona, Cantona e prima o poi anche Zidane).
Non saranno le reazioni maldestre e qualche pedata nervosa a oscurare l’immagine di mille colpi di genio.
Per ultima, fosse necessaria, la confutazione dell’accusa più gratuita, quella sulla presunta lentezza di Totti, sulla sua indolenza.
Francesco Totti corre come pochi altri, anche ora che ha 37 anni e che la sua carriera è inevitabilmente nella fase calante (parlando di prestazioni atletiche). Il fatto che sappia dove andare, che corra con eleganza e conosca bene le zone del campo in cui la sua corsa è necessaria non tragga in inganno.
Criticandolo si dice, nel pezzo di Padovan che ha scatenato le reazioni scomposte dei tottiani, che galleggia, laddove si vuole suggerire un concetto simile a quello della sopravvivenza, del minimo indispensabile, del compitino.
Basterebbe la visione, anche distratta, dei minuti di Roma – Napoli immediatamente successivi alla sua uscita. La Roma ha perso 20 metri di campo ed ha annaspato assai prima di riuscire a riorganizzare una reazione.
In quel vuoto di venti metri c’è tutto il campo che la corsa serena e la personalità di Totti riempiono in automatico.
Quindi, per non trasformare una dichiarazione d’amore in una noiosa (e goffa) dissertazione tattica, io dico lunga vita a Francesco Totti, prodigio del calcio e ultimo panda di un gioco che fu, quello in cui in Italia si dava il tempo ai giovani fenomeni di imparare a ruggire e non a scimmiottare i ronaldinhi e i cristianoronaldi altrui.
Francesco Totti è un fuoriclasse. Punto.
Dalai è un altro con cui magari posso essere in disaccordo talvolta (non in questo caso), ma che mi fa sempre piacere leggere.
Santiago CFO
I hate Illinois Nazis
I hate Illinois Nazis
- il_noumeno
- Moderatore
- Reactions:
- Messaggi: 66591
- Iscritto il: sab 9 giu 2012, 13:14
- Località: Off Topic
- Contatta:
- Stato: Non connesso
Re: La colonna non infame a.k.a. una speranza per l'Informaz
La mano di Garcia è dappertutto. È una mano geniale, severa, amica. Sa stringere quella di Pallotta, sa confortare i suoi giocatori, o correggerli. Sa insegnare un calcio flessibile, non è schiavo dei moduli. Partendo dalla difesa ha allestito un centrocampo formidabile. Sa cambiare le partite in corsa e sa come riverniciare un reparto (o un reperto: fino a sei mesi fa alcuni giocatori di questa Roma erano dei ruderi). Ad agosto la mano di Garcia salutò Osvaldo, Lamela e Marquinhos. Non tremò. Ora sta scrivendo il primo capitolo del romanzo di una squadra di cui ormai parlano anche su Marte (ma la Roma è l’esatto contrario di una squadra marziana). È fondata sulla semplicità, sulla voglia («ho giocatori che danno sempre il 100%, questa è la vera fortuna »). Amalgama perfetta. Sono loro i “maghi” della Roma: «Ne abbiamo una rosa intera». Coesione. La storia dei maghi raccontata con toni comicamente preoccupati da Lotito a De Laurentiis è stata ridotta a sketch dal tweet del presidente Pallotta: «Hanno svelato il nostro segreto: abbiamo 5 maghi, 4 stregoni, 3 veggenti, 2 ciarlatani e 1 giullare di corte». Questa Roma “of heart and mind” ha piedi buoni e rispetto dell’altro: «Non siamo superiori alle nostre avversarie. Il Chievo? È stata la partita più dura ». La Roma è solo un po’ più tosta e più umile: «Finora non ho sentito nessuno farneticare di scudetto ».
Garcia l’ha plasmata così, incapace di eccessi, a somiglianza del suo carattere di francese austero e dolce. Incarna il senso della misura in una piazza infiammata di felicità: «A Roma c’è la passione del calcio del sud, come a Marsiglia: solo moltiplicata per cinque». È il primo manager all’inglese del calcio italiano. In Inghilterra gli allenatori li chiamano “manager” perché Ferguson e Wenger lavorano a 360 gradi, sono sui dettagli, scelgono l’alimentazione, lavorano sull’emotività, si infilano gli scarpini ma dietro la scrivania tornano amministrativi, decidono il mercato, fanno da parafulmine. Si esprimono da filosofi («la natura non ama il vuoto», disse Garcia riprendendo un concetto aristotelico in occasione dell’infortunio di Totti) ma non si negano il piacere di accogliere altre istanze: «Il vuoto è ciò che più ci attrae in campo». Il Lao-Tsu delle panchine ha già disseminato Trigoria di profumi zen. Lì il cambio più importante: quello mentale. È l’uomo ovunque di questi 30 punti e dell’unico gol finora subito che sta sconvolgendo soprattutto la stampa inglese (le più vicine, dopo 10 giornate di serie A, sono il Torino del ‘76, il Bologna del ‘35 e l’Inter del ‘79, con 3 gol subiti).
A Brunico Garcia ha provato le sue idee di calcio. A inizio campionato aveva già capito che andavano aggiustate: nelle prime 5 partite la Roma era «la squadra dei secondi tempi»: quando scendevano le altre lei saliva. Così ha battuto Livorno, Verona, Parma, Lazio e Sampdoria. Poi è mutata altre tre volte, rimanendo se stessa. La Roma a più facce non rischia mai di perdere la propria identità. E identità è equilibrio. Contro il Chievo ha vinto costruendo una sola palla gol, trasformata dal suo centravanti. Garcia ha insegnato a sopportare i graffi del destino e i pali degli avversari. La sola volta in cui è andato sotto ha vinto lo stesso. Garcia è duro, decisionista, con Bompard e Fichaux ha cambiato Trigoria, intorno agli allenamenti ha fatto calare la nebbia: «Non ci devono disturbare ». Perché lo spettacolo comincia dove nessuno vede. E l’umore dell’allenamento è quasi più importante del sudore. Nel frattempo i suoi ragazzi sono tutti ringiovaniti dentro (a partire da De Rossi e Borriello). Roma lo ama senza riserve (lo striscione all’Arco di Costantino). Torniamo a giovedì sera: la Roma ha appena segnato. Balzaretti, che è appena entrato, si sente chiamare: «Federico! Federico!». È il suo mister. Garcia gli mette una mano dietro la nuca, un gesto affettuoso, protettivo, ma anche un invito a farsi ascoltare: «A cinque!». Voleva dire: ora ci mettiamo col 4-5-1. [underline]Quella mano, che guadagna un terzo di Mazzarri e dieci volte meno di Mourinho, dice tutto. E può molto.[/underline]
(La Repubblica – E. Sisti)
Garcia l’ha plasmata così, incapace di eccessi, a somiglianza del suo carattere di francese austero e dolce. Incarna il senso della misura in una piazza infiammata di felicità: «A Roma c’è la passione del calcio del sud, come a Marsiglia: solo moltiplicata per cinque». È il primo manager all’inglese del calcio italiano. In Inghilterra gli allenatori li chiamano “manager” perché Ferguson e Wenger lavorano a 360 gradi, sono sui dettagli, scelgono l’alimentazione, lavorano sull’emotività, si infilano gli scarpini ma dietro la scrivania tornano amministrativi, decidono il mercato, fanno da parafulmine. Si esprimono da filosofi («la natura non ama il vuoto», disse Garcia riprendendo un concetto aristotelico in occasione dell’infortunio di Totti) ma non si negano il piacere di accogliere altre istanze: «Il vuoto è ciò che più ci attrae in campo». Il Lao-Tsu delle panchine ha già disseminato Trigoria di profumi zen. Lì il cambio più importante: quello mentale. È l’uomo ovunque di questi 30 punti e dell’unico gol finora subito che sta sconvolgendo soprattutto la stampa inglese (le più vicine, dopo 10 giornate di serie A, sono il Torino del ‘76, il Bologna del ‘35 e l’Inter del ‘79, con 3 gol subiti).
A Brunico Garcia ha provato le sue idee di calcio. A inizio campionato aveva già capito che andavano aggiustate: nelle prime 5 partite la Roma era «la squadra dei secondi tempi»: quando scendevano le altre lei saliva. Così ha battuto Livorno, Verona, Parma, Lazio e Sampdoria. Poi è mutata altre tre volte, rimanendo se stessa. La Roma a più facce non rischia mai di perdere la propria identità. E identità è equilibrio. Contro il Chievo ha vinto costruendo una sola palla gol, trasformata dal suo centravanti. Garcia ha insegnato a sopportare i graffi del destino e i pali degli avversari. La sola volta in cui è andato sotto ha vinto lo stesso. Garcia è duro, decisionista, con Bompard e Fichaux ha cambiato Trigoria, intorno agli allenamenti ha fatto calare la nebbia: «Non ci devono disturbare ». Perché lo spettacolo comincia dove nessuno vede. E l’umore dell’allenamento è quasi più importante del sudore. Nel frattempo i suoi ragazzi sono tutti ringiovaniti dentro (a partire da De Rossi e Borriello). Roma lo ama senza riserve (lo striscione all’Arco di Costantino). Torniamo a giovedì sera: la Roma ha appena segnato. Balzaretti, che è appena entrato, si sente chiamare: «Federico! Federico!». È il suo mister. Garcia gli mette una mano dietro la nuca, un gesto affettuoso, protettivo, ma anche un invito a farsi ascoltare: «A cinque!». Voleva dire: ora ci mettiamo col 4-5-1. [underline]Quella mano, che guadagna un terzo di Mazzarri e dieci volte meno di Mourinho, dice tutto. E può molto.[/underline]
(La Repubblica – E. Sisti)
Santiago CFO
I hate Illinois Nazis
I hate Illinois Nazis
- porcaccia
- Pallone d'Oro

- Reactions:
- Messaggi: 32714
- Iscritto il: mar 14 ago 2012, 15:29
- Località: Roma
- Contatta:
- Stato: Non connesso
Re: La colonna non infame a.k.a. una speranza per l'Informaz
ulien Darui, l’incompreso che parava rigori al circo.
Prima di me erano tutti notai. Stavano lì a certificare il gol. Anche i più grandi. Zamora, Plànicka, Hiden, Combi. Tutti. Di loro si diceva che fossero dei monumenti. Si capisce. Non si muovevano mai. Il loro posto di lavoro era la linea di porta. Sarà che a scuola mi piaceva la geometria, ma se il portiere è l’unico a poter toccare il pallone con le mani in tutto quello spazio, allora il vantaggio deve sfruttarlo. Non può starsene lì ad aspettare. Io così feci. Non aspettavo. Sono stato il primo a uscire dai pali per afferrare un cross. Parve una rivoluzione, a me sembrava una ovvietà. daruilogo Sono stato anche il primo a rinviare sia con i piedi sia con le mani. Si perdevano meno palloni. Due novità nate qui, dentro la mia testa. Adesso la Francia si vanta di me, mi votarono miglior portiere del secolo. Peccato che non sapessero di avere il miglior portiere del Novecento quando serviva, nel 1938, altrimenti non mi avrebbero lasciato in panchina nel Mondiale che giocammo in casa. Ero la riserva di Laurent Di Lorto, più giovane di lui di sette anni. Con i terzini Mattler e Cazenave, suoi compagni anche al Sochaux, formava un terzetto che chiamavano “linea Maginot”. Che speranze avevo? Non misi mai piede in campo. Del resto, la Francia durò due partite. Una vinta contro il Belgio, l’altra persa contro l’Italia. L’Italia del braccio teso, del saluto fascista in terra di Francia, sommerso dai fischi della nostra gente. I campioni.
Sono nato in Lussemburgo, ma i miei si erano trasferiti prestissimo in un piccolo villaggio della Lorena, Audun-le-Tiche, avevano aperto un caffè. Ho cominciato fuggendo. Ho raggiunto il calcio scappando dalla finestra di casa, avevo 12 anni, non volevano che andassi allo stadio. In porta ero bravo già da ragazzino, arrivarono da Charleroi per offrirmi un contratto, a 19 anni appena. Ci voleva un gran bel coraggio per proporne uno a un portierino alto un metro e 69. Ma io pensavo, calcolavo, compensavo l’altezza con la mia idea del gioco. La teoria. Anche per questo con lo Charleroi arrivammo subito in finale di Coppa di Francia. Era il ’36. Com’è bello avere vent’anni. In finale ci sarei tornato nel ’39 con l’Olympique lillois, nel ’45 con il Lille, e in mezzo l’unica vinta: 1942, con il Red Star. Ho giocato 4 finali di Coppa di Francia con 4 squadre differenti, solo Franck Sauzée in seguito ha eguagliato il mio record (con Sochaux, Marsiglia, Monaco e Strasburgo).
Dovete sapere che il Red Star non è una squadra come tante altre. Primo: è la squadra di Saint-Ouen, e voi il suo mercato delle pulci lo conoscete. Secondo: è la squadra fondata da Jules Rimet, l’uomo che ha inventato i Mondiali di calcio. A Saint-Ouen arrivai nel bel mezzo della guerra. 1940. Giocavo con la consapevolezza di venire dalla Lorena, con tutto quel che significava negli anni del Terzo Reich. La guerra mi ha tolto gli anni migliori. Dopo quella Coppa di Francia, del Red Star è iniziato il declino. Ma quando nel ’47 il calcio internazionale si rimise in moto, a Glasgow organizzarono un’amichevole Inghilterra-Resto d’Europa. In porta vollero me. E in porta c’ero io anche quando nel ’47 il Roubaix ha vinto il suo unico scudetto francese.
Il titolo ce lo tolse il Marsiglia. Eravamo avanti 1-0 in trasferta, quando il loro ungherese Nagy affonda in area di fronte a Dubois, un pezzo d’uomo al centro della nostra difesa. Nessuno mi toglie dalla testa che Nagy si fece atterrare di proposito. Rigore. All’epoca il Marsiglia aveva uno straordinario tiratore, Roger Scotti, un simbolo. Scotti fintò di tirare sulla mia destra, io mi lanciai verso quella palla immaginaria e lui la mise a sinistra, bassa, lenta. Un maestro. Ma Félix Pironti, suo compagno di squadra, era entrato in area prima del calcio. Così l’arbitro disse che bisognava ripetere il tiro. Scotti riprese il pallone tra le mani e mi guardò negli occhi. Cercava di indovinare cosa stessi pensando, e io di lui. Sapevo che si sarebbe inventato qualcosa. Qualunque altro calciatore avrebbe cambiato stavolta la direzione del tiro. Non lui. Avrebbe calciato di nuovo esattamente dalla stessa parte. Ne ero sicuro. Di nuovo a sinistra. Dovevo buttarmi di là. Oppure no? Certo che no. Ecco qual era il trucco, ecco perché mi guardava dritto negli occhi. Aveva capito che io avevo capito. Avrebbe fatto la cosa più banale, era il suo piano per sorprendermi. Per questo quando Roger Scotti partì con la sua rincorsa, mi buttai per la seconda volta sulla mia destra, convinto, e per la seconda volta scoprii che la metteva a sinistra, bassa, lenta. Uno a uno. Pubblico impazzito. Mi alzai con la polvere sulla faccia e andai a stringergli la mano. Passarono altri cinque minuti e il solito Nagy si ritrovò in area accanto al solito Dubois. Mi pareva di impazzire: una partita in cui succedevano due volte le stesse cose. Si fece affondare ancora, l’arbitro fischiò un altro calcio di rigore. Si chiamava Veyret. Come facevo sui cross, lasciai i pali e corsi da lui a protestare. Ero il capitano. Potevo. Dissi ai miei che si trattava di un’ingiustizia, che avremmo fatto meglio a lasciare la partita. Era una decisione enorme, protestai in un altro modo. Quando Scotti mise per la terza volta la palla sul dischetto, non lo guardai. Gli voltai le spalle. Me ne rimasi a fissare la mia porta, quella linea dalla quale mi allontanavo tutte le volte che potevo, io che su una linea di confine ci sono nato e vissuto. La mia ribellione contro l’ingiustizia. Veyret mi raggiunse e mi ammonì, l’unica volta in tutta la mia carriera.
Ho provato a riprendermi gli anni persi dalla panchina. Prima allenatore-giocatore a Montpellier, poi a Lione e a Dijon. Solo che dalla panchina non ci si tuffa. Proposi alla federcalcio francese una scuola per portieri. Non ne seppi niente, ho lasciato perdere. Avevo 40 anni e sapevo solo tuffarmi. L’attore Jean Richard stava girando il suo ultimo film, mi pare con Chevalier o forse Renoir. Stava soprattutto per inaugurare la sua creatura, un circo, spettacoli per delfini gorilla e acrobati. Cercava nuove attrazioni, io cercavo un lavoro. Il 18 marzo del ’57 ero con un costume luccicante al centro della pista, a parare i rigori ai bambini. Io, il miglior portiere francese del Novecento. Un tour di otto mesi, debutto a Reims, il 27 eravamo a Parigi, lo spettacolo venne ripreso dalla tv. Lo so, il calcio non è un circo. Il calcio è anche spettacolo, con le sue leggi, i suoi riti. Il calcio ha bisogno di spazi aperti, di un cielo sopra di sé, di sogni irraggiungibili, ha bisogno delle umane indecisioni e della battaglia. Io, sotto quel tendone, trasformavo il calcio in una cosa da ridere. Era la mia vendetta su chi non mi aveva capito. Venticinque parate ogni sera, 700 al mese. Cominciarono a calciare anche gli adulti. Mi tuffavo e contavo. Il 99% dei tiri erano alla mia sinistra. Come Roger Scotti. Eppure, neanche un attimo esitai quando Richard mi offrì il contratto con il suo circo. E firmai, il mio nome era Julien Darui.
(Parole e pensieri attribuiti a Julien Darui sono frutto di fantasia)



Prima di me erano tutti notai. Stavano lì a certificare il gol. Anche i più grandi. Zamora, Plànicka, Hiden, Combi. Tutti. Di loro si diceva che fossero dei monumenti. Si capisce. Non si muovevano mai. Il loro posto di lavoro era la linea di porta. Sarà che a scuola mi piaceva la geometria, ma se il portiere è l’unico a poter toccare il pallone con le mani in tutto quello spazio, allora il vantaggio deve sfruttarlo. Non può starsene lì ad aspettare. Io così feci. Non aspettavo. Sono stato il primo a uscire dai pali per afferrare un cross. Parve una rivoluzione, a me sembrava una ovvietà. daruilogo Sono stato anche il primo a rinviare sia con i piedi sia con le mani. Si perdevano meno palloni. Due novità nate qui, dentro la mia testa. Adesso la Francia si vanta di me, mi votarono miglior portiere del secolo. Peccato che non sapessero di avere il miglior portiere del Novecento quando serviva, nel 1938, altrimenti non mi avrebbero lasciato in panchina nel Mondiale che giocammo in casa. Ero la riserva di Laurent Di Lorto, più giovane di lui di sette anni. Con i terzini Mattler e Cazenave, suoi compagni anche al Sochaux, formava un terzetto che chiamavano “linea Maginot”. Che speranze avevo? Non misi mai piede in campo. Del resto, la Francia durò due partite. Una vinta contro il Belgio, l’altra persa contro l’Italia. L’Italia del braccio teso, del saluto fascista in terra di Francia, sommerso dai fischi della nostra gente. I campioni.
Sono nato in Lussemburgo, ma i miei si erano trasferiti prestissimo in un piccolo villaggio della Lorena, Audun-le-Tiche, avevano aperto un caffè. Ho cominciato fuggendo. Ho raggiunto il calcio scappando dalla finestra di casa, avevo 12 anni, non volevano che andassi allo stadio. In porta ero bravo già da ragazzino, arrivarono da Charleroi per offrirmi un contratto, a 19 anni appena. Ci voleva un gran bel coraggio per proporne uno a un portierino alto un metro e 69. Ma io pensavo, calcolavo, compensavo l’altezza con la mia idea del gioco. La teoria. Anche per questo con lo Charleroi arrivammo subito in finale di Coppa di Francia. Era il ’36. Com’è bello avere vent’anni. In finale ci sarei tornato nel ’39 con l’Olympique lillois, nel ’45 con il Lille, e in mezzo l’unica vinta: 1942, con il Red Star. Ho giocato 4 finali di Coppa di Francia con 4 squadre differenti, solo Franck Sauzée in seguito ha eguagliato il mio record (con Sochaux, Marsiglia, Monaco e Strasburgo).
Dovete sapere che il Red Star non è una squadra come tante altre. Primo: è la squadra di Saint-Ouen, e voi il suo mercato delle pulci lo conoscete. Secondo: è la squadra fondata da Jules Rimet, l’uomo che ha inventato i Mondiali di calcio. A Saint-Ouen arrivai nel bel mezzo della guerra. 1940. Giocavo con la consapevolezza di venire dalla Lorena, con tutto quel che significava negli anni del Terzo Reich. La guerra mi ha tolto gli anni migliori. Dopo quella Coppa di Francia, del Red Star è iniziato il declino. Ma quando nel ’47 il calcio internazionale si rimise in moto, a Glasgow organizzarono un’amichevole Inghilterra-Resto d’Europa. In porta vollero me. E in porta c’ero io anche quando nel ’47 il Roubaix ha vinto il suo unico scudetto francese.
Il titolo ce lo tolse il Marsiglia. Eravamo avanti 1-0 in trasferta, quando il loro ungherese Nagy affonda in area di fronte a Dubois, un pezzo d’uomo al centro della nostra difesa. Nessuno mi toglie dalla testa che Nagy si fece atterrare di proposito. Rigore. All’epoca il Marsiglia aveva uno straordinario tiratore, Roger Scotti, un simbolo. Scotti fintò di tirare sulla mia destra, io mi lanciai verso quella palla immaginaria e lui la mise a sinistra, bassa, lenta. Un maestro. Ma Félix Pironti, suo compagno di squadra, era entrato in area prima del calcio. Così l’arbitro disse che bisognava ripetere il tiro. Scotti riprese il pallone tra le mani e mi guardò negli occhi. Cercava di indovinare cosa stessi pensando, e io di lui. Sapevo che si sarebbe inventato qualcosa. Qualunque altro calciatore avrebbe cambiato stavolta la direzione del tiro. Non lui. Avrebbe calciato di nuovo esattamente dalla stessa parte. Ne ero sicuro. Di nuovo a sinistra. Dovevo buttarmi di là. Oppure no? Certo che no. Ecco qual era il trucco, ecco perché mi guardava dritto negli occhi. Aveva capito che io avevo capito. Avrebbe fatto la cosa più banale, era il suo piano per sorprendermi. Per questo quando Roger Scotti partì con la sua rincorsa, mi buttai per la seconda volta sulla mia destra, convinto, e per la seconda volta scoprii che la metteva a sinistra, bassa, lenta. Uno a uno. Pubblico impazzito. Mi alzai con la polvere sulla faccia e andai a stringergli la mano. Passarono altri cinque minuti e il solito Nagy si ritrovò in area accanto al solito Dubois. Mi pareva di impazzire: una partita in cui succedevano due volte le stesse cose. Si fece affondare ancora, l’arbitro fischiò un altro calcio di rigore. Si chiamava Veyret. Come facevo sui cross, lasciai i pali e corsi da lui a protestare. Ero il capitano. Potevo. Dissi ai miei che si trattava di un’ingiustizia, che avremmo fatto meglio a lasciare la partita. Era una decisione enorme, protestai in un altro modo. Quando Scotti mise per la terza volta la palla sul dischetto, non lo guardai. Gli voltai le spalle. Me ne rimasi a fissare la mia porta, quella linea dalla quale mi allontanavo tutte le volte che potevo, io che su una linea di confine ci sono nato e vissuto. La mia ribellione contro l’ingiustizia. Veyret mi raggiunse e mi ammonì, l’unica volta in tutta la mia carriera.
Ho provato a riprendermi gli anni persi dalla panchina. Prima allenatore-giocatore a Montpellier, poi a Lione e a Dijon. Solo che dalla panchina non ci si tuffa. Proposi alla federcalcio francese una scuola per portieri. Non ne seppi niente, ho lasciato perdere. Avevo 40 anni e sapevo solo tuffarmi. L’attore Jean Richard stava girando il suo ultimo film, mi pare con Chevalier o forse Renoir. Stava soprattutto per inaugurare la sua creatura, un circo, spettacoli per delfini gorilla e acrobati. Cercava nuove attrazioni, io cercavo un lavoro. Il 18 marzo del ’57 ero con un costume luccicante al centro della pista, a parare i rigori ai bambini. Io, il miglior portiere francese del Novecento. Un tour di otto mesi, debutto a Reims, il 27 eravamo a Parigi, lo spettacolo venne ripreso dalla tv. Lo so, il calcio non è un circo. Il calcio è anche spettacolo, con le sue leggi, i suoi riti. Il calcio ha bisogno di spazi aperti, di un cielo sopra di sé, di sogni irraggiungibili, ha bisogno delle umane indecisioni e della battaglia. Io, sotto quel tendone, trasformavo il calcio in una cosa da ridere. Era la mia vendetta su chi non mi aveva capito. Venticinque parate ogni sera, 700 al mese. Cominciarono a calciare anche gli adulti. Mi tuffavo e contavo. Il 99% dei tiri erano alla mia sinistra. Come Roger Scotti. Eppure, neanche un attimo esitai quando Richard mi offrì il contratto con il suo circo. E firmai, il mio nome era Julien Darui.
(Parole e pensieri attribuiti a Julien Darui sono frutto di fantasia)



Non ho capito un ciufolo della vita
paz ha scritto: Poi Danilo ha un qualcosa in più: ha quel tocco macho del bestemmiatore solitario, insomma, di chi non conosce solo le vette ardite dell'intelletto, ma anche la suburra della materialità.
Chi c’è in linea
Visitano il forum: Nessuno